16 marzo 1968, il delitto Moro

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-di Giuseppe Esposito-

Il 16 marzo 1968, poco dopo le 9 di mattina un commando assale l’auto a bordo della quale viaggiava il presidente della DC Aldo Moro e quella delle guardie del corpo. I cinque agenti della scorta: Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, restano sul terreno, Aldo Moro è rapito. Il commando era formato, si saprà più tardi, da 14 vigliacchi appartenenti alle Brigate Rosse.

Moro fu tenuto prigioniero per 55 giorni durante i quali i partiti di governo, appoggiati anche dal PCI si rifiutarono di trattare coi brigatisti per la liberazione di Moro. Favorevoli furono solo il PSI di Craxi e ed il Vaticano. Paolo VI lanciò addirittura un appello ai brigatisti per implorarli di risparmiare la vita al presidente Moro.

Infine il giorno 9 maggio, alle ore 13, nel portabagagli di una Renault 4, fu ritrovato il corpo di Aldo Moro, crivellato di colpi, avvolto in una coperta col volto reclinato, come se dormisse. Aveva il pollice fracassato da uno dei colpi che gli erano stati sparati a bruciapelo, 14 in tutto, come se avesse portato le mani al viso, in un estremo gesto di difesa. I suoi vili carnefici non avevano avuto nemmeno la pietà di coprirgli il volto prima di tirare il grilletto.

Il luogo del ritrovamento era via Fani, una via del centro di Roma, a metà strada tra Piazza del Gesù, dove vi era la sede della DC e le Botteghe Oscure, dove era la sede, faraonica del PCI. Un luogo emblematico che alludeva, forse, ai motivi di quel rapimento e di quella efferata esecuzione.

Secondo quanto afferma il giornalista Marco Belpoliti, in una sua recensione al libro di Miguel Gotor sull’argomento, il presidente Aldo Moro, insieme a Pier Paolo Pasolini, è uno dei due cadaveri ancora insepolti della nostra storia recente.

La verità sulle vere cause di quella tragedia non sono mai state chiarite fino in fondo. Gli autori materiali del crimine furono arrestati e processati, ma oggi molti di loro sono già in libertà e nessuno di essi appare pentito di quell’omicidio. Addirittura, alcuni ancora si vantano, dopo più di quarant’anni, di quel gesto.

Le ipotesi avanzate sulle vere cause sono molte e riportano a motivi di politica interna come a ragioni di politica internazionale. Ma su quelle ragioni molti sono stati i tentativi di alzare una cortina fumogena per evitare che la verità venisse a galla. Sulle radici interne si può parlare di due fazioni che comprendevano, da una parte, quella composta dai pidduisti, dai servizi segreti e da quella parte del parlamento che osteggiava la politica di Moro tendente al compromesso storico, cioè all’inclusione nell’area del governo del PCI di Berlinguer, che era poi l’autore di quella definizione.  Moro intendeva procedere a cooptare anche i comunisti nell’area democratica, come aveva già fatto nel 1963 col PSI. Dall’altra parte vi era tutta l’area delle formazioni terroristiche e quella che si può definire la zona grigia, cioè la nebulosa dei loro fiancheggiatori che operavano senza mostrars zoni apertamente. Quelli che definivano i brigatisti, compagni che sbagliano, ma senza prenderne le distanze.

Ma credere che le BR abbiano agito autonomamente e solo per poter sottoporre Moro ad una sorta di processo in nome del popolo è una ingenuità non più sostenibile.

Bisogna infatti rifarsi al contesto storico e geopolitico del tempo. Il riavvicinamento del PCI al partito di Moro non era ben visto né ad est che ad ovest. In effetti una delle condizioni poste da Moro per procedere alla realizzazione di quel compromesso era il distacco del PCI da Mosca e la cosa era naturalmente malvista da Mosca.

D’altro canto gli USA nemmeno vedevano di buon occhio l’ingresso dei comunisti nel governo dell’Italia.

Prima del rapimento di Aldo Moro, si tentò di uccidere Berliguer, che si era recato in visita in Bulgaria. Tentarono farlo investire da un camion ma Berlinguer si salvò ed a morire fu il suo autista.

Oltre agli Usa ed al PCUS, Partito Comunista dell’Unione Sovietica, l’Italia era stata da sempre vista come un paese a sovranità limitata anche da potenze come la Gran Bretagna e la Francia e ciò già a partire dalla metà del XIX secolo. In quel tempo, mentre era regnante Ferdinando II,  la politica del Regno delle Due Sicilie intendeva difendere i propri interessi nel Mediterraneo e per questo dava fastidio al commercio ed ai traffici di Francia e, soprattutto Inghilterra, col Medio e Estremo Oriente. Infatti l’impresa di Garibaldi fu finanziata dalla massoneria inglese e portò alla dissoluzione del Regno borbonico.

Ma la cosa non finì in quel momento. Anche dopo la prima guerra mondiale, l’Italia di Mussolini che stava ottenendo buoni successi in campo economico con la difesa della lira contro gli attacchi speculativi internazionali (nihil novum sub sole), e con la reindustrializzazione sostenuta dall’IRI, fu spinta dall’isolamento internazionale verso la fatale alleanza con la Germania nazista, con le conseguenze che tutti conosciamo.

E, dopo essere uscita distrutta anche dalla seconda guerra mondiale, l’Italia aveva risollevato le sue sorti con la sua politica, cui anche Moro aveva contribuito, di amicizia con le nazioni arabe e, con l’opera di Enrico Mattei si dirigeva a grandi passi verso l’autonomia energetica, a dispetto del predominio delle cosiddette sette sorelle, dava di nuovo fastidio agli interessi delle solite grandi nazioni. Vi fu per questo, forse, la misteriosa morte di Mattei e nel campo della informatica, allora nascente, il sabotaggio della Olivetti con la morte misteriosa avvenuta ad Aigles in Svizzera e lo strano incidente in cui perse la vita l’uomo di punta della divisione elettronica dell’azienda di Ivrea, l’ingegner Mario Tchou.

Insomma anche il delitto Moro può essere inquadrato in un contesto di politica internazionale in cui l’Italia è sempre stata tenuta in condizioni di inferiorità e posta nella condizione di non nuocere agli interessi delle potenze egemoni nel coso del XIX  e del XX secolo. Sembra una storia di fantapolitica, ma forse non è che la realtà.

 

 

 

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