di Sabrina Prisco-
Quando arrivai sull’isola, il sole stava quasi per tramontare, il piccolo porto, rivolto a ovest,
sembrava prendere fuoco.
Franco, il barcaiolo, mi aveva individuata subito in mezzo ad una ventina di vacanzieri in transito, come la persona che sarebbe invece rimasta lì, nel borgo isolato. Dal molo, m’indicò una scalinata che dal mare saliva su, in mezzo alle rocce, verso un grappolo di case: – Troverai Giovanni il custode in cima alle scale, – disse – ti accompagnerà lui alla Casa dei Poeti.
Fu allora che lo vidi.
Era rimasto in fondo al battello, nascosto dal gruppo di turisti e aveva aspettato che tutti fossimo sbarcati prima di muoversi. Franco lo aiutò a scendere e ci ritrovammo vicini. Io col mio zaino col computer ed il necessario per qualche mese di permanenza, lui con un bastone sul quale appoggiava una mano nodosa come una vecchia radice, nell’altra un sacchetto di plastica.
Si avviò verso le scale senza una parola, seguito per un po’ dallo sguardo scuro del barcaiolo che infine scosse mestamente la testa e riprese ad armeggiare con le cime.
Mi avviai anch’io e con pochi passi gli fui dietro. Non avevo fretta di superarlo né lui dava segno di volersi scostare per farmi passare. Mi venne incontro Giovanni, uomo di mare, piccolo e asciutto come un tralcio di vite. Fece un cenno di saluto al vecchio col bastone che proseguì verso le case, e poi allargò le braccia in segno di benvenuto, come fossimo vecchi amici.
La casa dei poeti era alle pendici del vulcano, affacciata sul mare. Camminammo su un sentiero, in silenzio. Andavo ad occhi bassi, spingendo sulla punta dei piedi, concentrata soltanto sul movimento delle gambe, prima una, poi l’altra.
Notai poche cose lungo il tragitto: il cancello socchiuso del piccolo cimitero, un giardino pieno di fichi d’india di una casa isolata, un recinto con due asini. A casa ebbi appena il tempo di vedere il terrazzino affacciato sull’infinito del mare, in quell’ora magica che chiude il crepuscolo ma che non è ancora notte, e mi addormentai, sfinita, non appena toccai il letto.
Col primo sole del mattino studiai la casa nei dettagli e pensai, soddisfatta, che fosse il posto adatto per concentrarmi per il lavoro che avevo da fare. Entro la primavera avevo una scadenza con l’editore e gli ultimi mesi erano stati caotici ed inconcludenti.
Ripresi il sentiero verso il villaggio cercando di ricordare le direzioni prese ai bivi. Quando vidi il muro di pietra del cimitero, mi rassicurai di essere sulla strada giusta. Svoltai l’angolo verso la facciata principale in tempo per notare una figura che oltrepassava il cancello. Mi affacciai e vidi il vecchio col bastone che avanzava sul viale assolato, ai lati del quale c’erano vecchie tombe tutte uguali, squadrate, con coperture di coppi e senza fotografie. In cima al viale una chiesetta ed un maestoso cipresso che faceva ombra. Il vecchio arrivò al cipresso, poi svoltò a sinistra verso un gruppo di tombe dai colori diversi, evidentemente più recenti. Si fermò davanti a una col marmo rosso scuro. Gli unici rumori percepibili erano le cicale e, in lontananza, il borbottìo di un gozzo nella rada.
Ebbi l’impressione che il vecchio vacillasse tant’è che si appoggiò con entrambe le mani
al bastone. Poi, lentamente si chinò fino a ritrovarsi in ginocchio.
Da dietro il tronco del cipresso, non sapevo se aiutarlo o meno ma all’improvviso mi sembrò di star violando l’intimità di un incontro segreto, mi vergognai di essere lì ma nello stesso tempo non muovevo un passo verso l’uscita e rimasi nascosta. L’uomo tirò fuori dalla tasca il sacchetto che avevo notato il giorno prima e ne estrasse degli oggetti che stavano in una mano. Quando cominciò a poggiarli sul bordo della tomba, mi accorsi che erano dei sassi.
– Ciao Marco, ne ho trovati solo cinque stavolta. – sussurrò.
Il tempo sembrò sospendersi, nel silenzio caldo del mattino. Non so dire quanto ne trascorse prima che il vecchio si rialzasse, appoggiandosi con forza al bastone. Portò la punta delle dita alle labbra e lasciò cadere sul marmo un bacio silenzioso. Poi, piano, si avviò verso l’uscita.
Quando fui certa che il vecchio avesse oltrepassato il cancello, uscii dal mio riparo e andai verso la tomba.
Sopra c’era una scritta dedicata a Marco:
“Maggio 1973 – settembre 1996. Ti lascio nella terra che amavi, davanti al tuo mare. Davide”
Tutto intorno alla soglia di marmo centinaia di piccoli sassi. Mi avvicinai e mi s’incrinò il respiro in gola. Avevano tutti la forma perfetta di un cuore. Da quei sassi emanava un amore dolce e profondo e un dolore immenso e definitivo.
Non rividi più il vecchio. Rividi però Giovanni, tempo dopo, che mi raccontò la storia del signor Davide. Sotto il pergolato di casa, un pomeriggio in cui era passato a vedere come stavo, bevve il caffè, e, quando ebbe finito, sollevò il mento verso il mare, ad indicare un punto verso l’isola vicina.
“Erano lì fuori, lui e Marco, facevano immersione in apnea. Marco era arrivato quando Davide ed Emma, sua moglie, oramai avevano quasi rinunciato ad avere figli. Erano venuti in vacanza qui sull’isola e se n’erano innamorati. Nove mesi dopo era nato Marco e da allora erano certi che l’isola avesse il potere di realizzare le cose impossibili. Tornavano ogni estate, prima tutti e tre, ma presto
Davide e Marco rimasero soli, la signora morì all’improvviso, un inverno. Erano legatissimi, Marco cresciuto velocemente, Davide impermeabile agli anni che passavano, sembravano fratelli, più che padre e figlio. Fino a quella sera maledetta. Il giorno dopo sarebbero dovuti ripartire con la nave e
Marco non volle rinunciare ad un’ultima immersione nella zona delle secche, lì in fondo” – Ripeté il gesto col mento. – “Lo ritrovarono dopo due giorni e nessuno ha mai capito cosa sia successo.
Davide non uscì dalla sua casa per mesi. E’ quella circondata dai fichi d’india poco lontano da qui.
Li fece piantare lui, diceva che il fico d’india ha un modo dolce ma determinato di tener lontane le persone. Viaggia nel mondo tutto l’anno e torna qui per l’anniversario.” Fece una pausa, la voce gli si spezzò.
“Torna a portare i frantumi del suo cuore.” Giovanni si fermò in silenzio a guardare
lontano, verso le secche, come se lì in fondo ci fossero ancora parole da trovare, risposte che potessero consolare. Ma non ce n’erano. Uscì sul sentiero di casa, si voltò guardandomi con i suoi occhi pieni di mare: “Domani ti porto la legna per il camino, comincia a rinfrescare.”
E se ne andò