di Giuseppe Esposito –
Mi torna in mente, in questi giorni che precedono il Natale, giorni flagellati dall’incertezza del futuro, giorni disperati, amareggiati da guerre, pandemie, e crisi profonda, il Natale di una volta. Mi tornano in mente i giorni che precedevano il Natale nella nostra casa di via Zara.
In questo periodo mio padre cominciava i preparativi per l’allestimento del presepe. Si tiravano giù, dal mezzanino del terrazzo, gli scatoloni contenenti i pastori ed il sughero riposti a gennaio, con tutta la cura possibile. Ognuno dei pastori era stato avvolto delicatamente in un pezzo di carta di giornale, per proteggerlo dagli urti. Eppure, nonostante la cura posta nel rimetterli a posto in gennaio, non erano pochi i pastori che, riemergendo dallo scatolone apparivano danneggiati, monchi o decapitati.
Oggi quei poveri pastori mutilati sarebbero stati buttati via e sostituiti con altri acquistati per la bisogna. Ma a quei tempi la filosofia imperante era quella che non si gettava via mai nulla. Anche Luciano De Crescenzo ricorda come in casa sua la madre conservasse ogni cosa, anche quelle apparentemente inutili. Così egli scriveva in uno dei suoi libri: “Mia madre, per esempio, conservava tutto! Non buttava via mai niente! Non so, per esempio, ‘nu muzzone ‘e ‘na cannela? Se lo conservava. Trovava uno spago corto che un altro avrebbe gettato via … Mamma no! Mamma lo metteva da parte lo conservava.”
Era stata forse l’esperienza della povertà che aveva accompagnato le vecchie generazioni di italiani ad instillare in essi il rispetto per le cose, anche quelle più insignificanti.Così nella credenza della cucina vi era un cassetto destinato ad accogliere ogni cosa che non avesse una utilità immediata.
Tornando ai miei pastori, nessuno veniva mai abbandonato. Una volta scartati si separavano quelli integri da quelli danneggiati e di questi mio padre si prendeva cura e cercava di rimediare al danno subito. La materia prima per quei restauri era la colla di pesce. Una cosa che al giorno d’oggi, forse, nessuno sa nemmeno cosa sia.
La colla di pesce era un collante che oggi si definirebbe ecologico, veduta in tavolette simili a quelle del cioccolato. Per poterla utilizzare occorreva scioglierla sul fuoco e lo si faceva ponendo le scaglie in barattoli di latta, barattoli che avevano contenuto i pomodori pelati o la conserva ed erano stati conservati, come tante di quelle cose cui accennava anche De Crescenzo.
Lo scioglimento della colla di pesce sul fuoco diffondeva, per tutta la casa, un odore terribile, un odore alquanto nauseante, ma la magia del ricordo associa oggi il Natale a quell’odore. Nella mia memoria quell’odore ha perso ogni suo connotato repellente e è divenuto quasi un simbolo di quei giorni che precedevano il Natale, un’alchimia della memoria.
Per effettuare l’incollaggio dei pezzi occorreva prelevare dal barattolino piccole porzioni di gelatina con un bastoncino di legno ed applicarla ai monconi da saldare. Ma perché il fissaggio avvenisse occorreva attendere che la gelatina si consolidasse di nuovo, cosa che non avveniva tanto rapidamente. Nell’attesa occorreva tenere aderenti i due pezzi da collegare, evitando che si spostassero reciprocamente. Insomma occorreva una santa pazienza! Ed anche quando si passava poi a disporre i pastori sul sughero delle montagne bisognava fare attenzione. Le statuine erano prive di una base e non si reggevano in piedi da sole. Pertanto, una volta applicata la colla occorreva puntellarle con degli stuzzicadenti. Le statuine erano di varie dimensioni e le si collocava in ordine di grandezza decrescente, dalla base dello scoglio alla sommità, al fine di rendere l’effetto di una visone prospettica. Oltre ai pastori, sulla montagna venivano sparse numerose casette, ricavate dal cartoncini delle confezioni di medicinali ed opportunamente dipinte.
Si creava poi, con la carta stagnola delle confezioni di cioccolato, religiosamente conservata, il laghetto artificiale in cui il pescatore lanciava la sua lenza. Talvolta, con la stessa stagnola, si creava il letto di un torrentello alimentato con vera acqua, dal clistere che normalmente era appeso in bagno. In basso l’acqua era raccolta da una bacinella nascosta sotto il tavolino su cui poggiava tutta la struttura. I cespugli erano fatti col muschio raccolto in giro sui muri di tufo che costeggiavano i sentieri che da Poggioreale si arrampicavano sulla collina della Doganella.
Ma ciò che conferiva un’aura magica al nostro presepe era l’illuminazione. A quei tempi gli odierni led erano ancora lontani e per le luci si utilizzava una serie di piccole lampadine a forma di sfera, avvitate su portalampade di metallo. Ogni qual volta la serie veniva tirata fuori dalla sua scatola, al primo tentativo di accensione faceva cilecca. Bisognava allora svitare una ad una le piccole lampadine e provarle tra i poli della batteria da 4,5 volt, con i contatti d’ottone posti alla sua sommità. Le lampadine col filamento interrotto erano sostituite e si procedeva, quindi, al montaggio. Il filo era steso sulla montagna avendo cura di occultarlo tra i cespugli di muschio e gli anfratti del sughero che imitava le rocce.
Quando tutto era pronto, noi ragazzi ci incantavamo ad ammirare quel paesaggio fiocamente illuminato nel buio della stanza da pranzo. E tutte le volte che penso al Natale la meraviglia di quelle lucine splendenti nella camera buia mi provoca un groppo di nostalgia in gola. Una nostalgia dolce che mi riporta indietro a quel tempo felice ormai perduto.
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